Dati 2015: 400 milioni se ne vanno in commissioni ai gestori
Le commissioni d’incentivo, chiamate tecnicamente “performance fee”, sono semplicemente tasse supplementari sul risparmio. Questi soldi però non vanno allo Stato, ma alle società preposte alla gestione di fondi d’investimento (in sigla, SGR).
I dati del 2015 parlano chiaro: solo nel primo trimestre, gli italiani hanno pagato oltre 400 milioni a titolo di performance fee.
E stiamo parlando solo dei 4 marchi del risparmio gestito quotati in Borsa: Anima, Azimut, Banca Generali e Mediolanum.
Cos’è la performance fee?
Si tratta di commissioni legate all’andamento del fondo, che vengono pagate direttamente alla società di gestione e che si aggiungono alle spese di gestione ordinarie. Nonostante siano legate all’andamento del fondo, non sono però proporzionali al suo rendimento. Infatti, spesso e volentieri i sottoscrittori di questi fondi sono costretti a pagare anche se i risultati sono negativi andando a riempire le tasche delle SGR.
Come si calcola?
Il meccanismo di calcolo delle commissioni sembra studiato apposta per aumentare i costi a carico dei risparmiatori perché calcolati sulla base dell’andamento mensile o trimestrale. Funzionano così, per esempio, numerosi fondi della scuderia Azimut, che applicano commissioni ogni trenta giorni. I prodotti di Banca Generali, invece, prevedono in molti casi prelievi trimestrali.
Ad esempio, se un fondo ha perso il 10% in un mese e recuperato il 5% in quello successivo, l’investitore pagherà un premio al gestore, nonostante il fondo sia ancora sotto del 5% nei 2 mesi considerati.
In pratica, le performance fee vengono addebitate anche se l’investitore non ha ancora finito di recuperare le perdite dei mesi precedenti.
Un meccanismo che tende a premiare il breve termine, quando i prodotti finanziari legati ai mercati azionari andrebbero invece valutati nel lungo periodo.
Dall’altro lato non c’è nessuna regola che imponga delle penalità ai gestori in caso di perdita del fondo. Ipotesi che permetterebbe ai risparmiatori di recuperare almeno in parte i costi elevati a loro carico.
Come si aggirano le regole?
Per BankItalia, i rendimenti vanno misurati su base almeno annuale e il gestore non può scegliersi l’indice che più gli fa comodo.
Se non fosse che centinaia di fondi venduti ai risparmiatori italiani sono registrati in Irlanda o in Lussemburgo. E non è solo una questione di commissioni.
Le società di gestione con base all’estero finiscono anche per risparmiare sulle tasse. In Irlanda e in Lussemburgo il fisco ha notoriamente la mano leggera. E così, al riparo di quelle legislazioni no-tax, società come Azimut, Banca Generali e Mediolanum riescono a ridurre ai minimi termini le imposte da pagare. In altre parole, non solo le commissioni, ma anche i profitti viaggiano offshore.
Contromisure dell’UE
Secondo Morningstar*, la messa in atto del MiFID II a inizio 2018 dovrebbe segnare l’avvento della vera trasparenza per quanto riguarda costi di gestione e commissioni pagate a consulenti finanziari e società di gestione.
Ci si aspetta infatti che consulenti e promotori si muovano verso modelli di business incentrati sui costi, amplificando da un lato l’attenzione sui costi e dall’altro la qualità del servizio offerto in cambio di tali costi.
I clienti dovrebbero quindi essere più consapevoli di quello che stanno pagando per l’investimento e per il servizio di intermediazione, potendo quindi dare il giusto valore alla qualità della prestazione.
ETF: l’alternativa fai da te
Per gli investitori che invece non vogliono pagare intermediari, ma gestire le proprie finanze in modo indipendente, esistono gli ETF, “exchange traded fund”.
Si tratta di uno strumento d’investimento con l’obiettivo di replicare l’andamento di un indice.
La loro gestione viene per questo definita passiva. Proprio per questo gli Etf hanno costi di gran lunga ridotti rispetto ai normali fondi.
Conclusione
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*Fonte: Morningstar – Making the Most of MiFID II
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